Pierre Niney è Il Conte di Montecristo su Canale 5: l’intervista

Tra i prodotti di punta delle Strenne natalizie di Canale 5 spicca, giovedì 26 e venerdì 27 dicembre, in prima serata, il film «Il Conte di MonteCristo», nuova trasposizione del romanzo di Alexandre Dumas, che da 180 anni non smette di appassionare e avvincere, tra adattamenti cinematografici, televisivi, teatrali, fumetti e manga.

Diretto da Matthieu Delaporte e Alexandre De La Patellière, la pellicola vede protagonista Pierre Niney, premiato con un César come miglior attore per il biopic-cult Yves Saint Laurent.

Qual è stata la tua reazione, quando Alexandre e Matthieu ti hanno parlato del progetto?

Avevo le vertigini! All’improvviso sono tornati i ricordi della sua lettura… sensazioni paragonabili a quelle dell’amore. MonteCristo è presente in ogni momento della mia vita: nei sogni di bambino, in quelli del giovane che si sta formando come attore, in quelli dell’adulto che lavora alla Comédie-Française. Per qualsiasi attore, interpretare MonteCristo è un sogno paragonabile a quello dell’impersonare Amleto… perché permette di approfondire una moltitudine di temi esistenziali: innocenza, ingiustizia, tradimento, rimpianto, rimorso, vendetta, bene, male, mostruosità… e altri professionali: recitare in età diverse, personaggi molto differenti, tra speranza, disperazione, vendetta, calma. Ci sono pochissimi ruoli come questo.

La tua filmografia è ricca di personaggi che si nascondono dietro diverse maschere.

Questo è vero! Ma, va detto, la maschera è eminentemente cinematografica. E mostrare un aspetto di sé, che non corrisponde alla realtà è sempre affascinante. Da Plein Soleil di René Clément ai film di David Lynch, Christopher Nolan o Brian De Palma, le maschere sono presenti in molte opere. Sono stato influenzato anche dai film di Tim Burton e dai supereroi: il più elettrizzante è quello di Bruce Wayne alias Batman, per inciso anche il più vicino a MonteCristo. Per me, cambiare volto, essere qualcun altro, è tanto un piacere da bambino quanto da attore. In MonteCristo è il mezzo per la vendetta, ma per un attore è una catarsi eccezionale. Sono un fan di Gary Oldman, Christian Bale, Brad Pitt in Twelve Monkeys o Burn After Reading, che offrono allo spettatore incredibili trasformazioni, forse più rare nella cultura francese.

Prima del conte di MonteCristo e dei suoi avatar, ci sono vari Edmond Dantès: il giovane felice, il prigioniero annientato, il prigioniero rinato. In quale ti sei sentito più te stesso?

Dantès è il prodotto di una somma. Il giovane e spensierato Dantès dell’inizio si fonde con il Dantès simile a Cristo, che sopravvive alla propria prigionia, e al quarantenne Dantès, libero ma segnato da cicatrici fisiche e morali. L’uno non sostituisce l’altro, si aggiungono ed è per questo che è doloroso. Ogni Dantès porta con sé gli altri Dantès, così da sprofondare nelle tenebre dell’umano. Come nella mitologia e nella tragedia, dove gli dèi decidono di giocare con l’umano, di farlo impazzire, di perseguitarlo, Dantès è destinato a sperimentare ciò che il mondo può offrire di più ingiusto e più oscuro per un uomo. Mi sono piaciuti tutti, ma le sequenze nella prigione sono state particolarmente forti. Giravamo in tunnel appositamente realizzati per la pellicola, dove lo spazio era molto limitato e passavo la giornata a graffiarmi ginocchia e gomiti… questa reclusione mi ha aiutato a trasmetterne la disperazione. Quanto all’incontro con l’abate Faria, quando la follia ormai incombe su Dantès, l’ho trovato travolgente. Il loro primo sguardo è allucinato, quasi animale, e racconta l’insondabile felicità che provano nel trovarsi davanti un creatura reale, nel vedersi, nel toccarsi.

In che modo Alexandre e Matthieu ti hanno aiutato a interpretare MonteCristo e le altre sue identità, che ti hanno reso irriconoscibile?

Ho lavorato molto da solo, prima di incontrarli regolarmente durante le lunghe prove-trucco. Abbiamo fatto almeno quattro test per MonteCristo e due per il suo avatar principale. Questi momenti ci hanno permesso di scambiare idee sull’aspetto dei personaggi: più o meno rughe, più o meno spaventoso? Questa è la prima volta che dei registi si adattano il romanzo, cambiando nettamente l’aspetto di MonteCristo. Ci sembrava essenziale per la credibilità del film. Tra questi avatar, uno è un personaggio esuberante, opposto a Dantès, che enfatizza il cinico piacere di MonteCristo nell’ingannare i propri nemici. Percepiamo la sua arroganza. Il suo piacere si basa sulla convinzione che i vizi dei suoi nemici li rendano ciechi, al punto di non essere abbastanza cauti. La cosa fantastica è che ha funzionato anche su molti spettatori. Almeno per qualche istante. Questo è ciò cui puntavamo. Persino i miei genitori non mi hanno riconosciuto, quando hanno visto questa sequenza. Per quanto riguarda MonteCristo ho dovuto trovare un ritmo diverso, rispetto a quello di Dantès, necessario per far capire che non sono la stessa persona: una, innocente in prigione, e l’altra, 17 anni dopo, uomo più ricco del mondo. Era necessario trovare l’aura, il carisma che spiega come questo conte impressioni i suoi interlocutori. Mi sono orientato verso una forma di austerità, di economia del movimento, molto diversi dal mio essere. Ho fatto ascoltare ad Alexandre e Matthieu voci diverse: più profondità, più drammaticità? Non ci sono stati lunghi dibattiti, perché avevano una posizione comune e un’opinione decisa. La preparazione è stata affascinante, perché c’era una buona amalgama. La teoria mi rende ansioso, mi piace vivere solo nella pratica.

MonteCristo è un uomo ferito, in cerca di vendetta. Cogli questa sua oscurità, che diventa crudeltà estrema? C’è anche una sua dimensione di giubilo?

Ho amato questa sua oscurità. Continuavo a dire a Matthieu e Alexandre: «Possiamo essere oscuri, dobbiamo abbracciare l’oscurità di quest’opera». Film e serie, in anni recenti, hanno preparato il pubblico ad approfondire questa oscurità. Era importante non indorare la pillola. Abbiamo voluto esplorare come l’animo umano possa diventare più oscuro, quando non crede più a giustizia, amore, amicizia. E sono stato felice di vedere come, giorno dopo giorno, abbiamo esplorato questa oscurità. Una forma di follia, che risponde a domande molto razionali: come vendicarmi? Posso permettermi tutto? L’etica m’impedirà di fare ciò che voglio? Naturalmente, può esserci piacere nella vendetta. Molti film americani sono basati sulla storia di un bravo ragazzo, vittima di un cattivo, dove si narra come il primo capovolgerà la situazione, dando al pubblico il piacere della giustizia riparatoria. È la formula di Clint Eastwood, di tutti i western, e anche di molti film non di genere.

Ma per cercare vendetta, bisogna avere sofferto. Agli occhi dello spettatore, la sofferenza del protagonista ne giustifica la vendetta. Altrimenti è solo sadismo, e non funziona. È affascinante come questo tema di pura fiction si intersechi con la vita vera. Perché, per quanto vogliamo essere bravi, la vendetta è sempre un’opzione, anche se non nelle proporzioni di Dantès. Il film, quindi, chiede costantemente allo spettatore: fino a che punto si spingerà? Dov’è l’etica, quando il mostro alza la testa, quando passiamo dall’essere umani a mostri? È questa l’affascinante domanda filosofica al centro dell’opera, che mette in discussione anche la nostra oscurità personale. Se, come Dantès, fossi tradito, e in quella misura, dai miei amici, dalla giustizia, dal mio Paese, e avessi i mezzi per vendicarmi, posso assicurare che non cercherei vendetta, che considererei il perdono come l’unica soluzione salvifica?

C’è un momento molto potente, in cui MonteCristo decide, come un angelo ribelle, di prendere il posto di Dio.

MonteCristo si assume la responsabilità di sostituirsi a Dio e di ristabilire la giustizia, perché sa che i conti non tornano. Ai miei occhi, questo è il senso del film. Ho persino suggerito a Matthieu e Alexandre, la battuta: «D’ora in poi sono io che premio e sono io che punisco.» MonteCristo prende il posto di Dio per correggere un’anomalia. Perché somiglia ai supereroi, come nella serie The Boys, dove l’arroganza va molto oltre. I supereroi, buoni o cattivi che siano, sono molto rappresentati, ma non quelli che hanno in mano le leve finanziarie o intellettuali, che sono convinti di fare del bene anche quando fanno del male. Trovo affascinante concentrarmi su di loro, ora che hanno spremuto la Marvel e i cattivi che vogliono far saltare in aria il Pianeta. Forse è per questo, che MonteCristo sta tornando.

È un ruolo molto fisico. Qual è stata la tua preparazione al riguardo?

Il primo allenamento è stato la pazienza! In due mesi e mezzo ho passato 150 ore seduto su una sedia per il trucco, senza contare i ritocchi sul set. Ogni sessione di trasformazione fisica è durata dalle quattro alle sei ore… Per il resto, non avevo mai cavalcato, quindi ho seguito un allenamento speciale per imparare a farlo. Ho preso anche di lezioni di scherma, in particolare con Bastien Bouillon, che interpreta Fernand de Morcerf, per evitare di colpirci l’un l’altro! Ho lavorato a stretto contatto con gli stuntman, per tirare di scherma prima più correttamente e poi con sempre più rabbia e brutalità. Infine, per dare maggiore credibilità alla scena della fuga, ho preso lezioni di apnea con Stéphane Mifsud, campione del mondo di apnea statica, per poter interpretare la scena del sacco che affonda. Probabilmente è stata la sfida più spaventosa ed emozionante del film. Essere legati, in un sacco, a 15 metri di profondità… C’è stato un momento in cui mi sono detto: è ragionevole? La prima reazione di Pathé è stata: «Confermate che non lo avete fatto fare realmente, a Pierre, vero?»

In effetti, la scena della tua fuga è estremamente tesa, sembra che tu stia per annegare sotto ai nostri occhi…

Ci ho quasi creduto anch’io: ero dentro al sacco… e ho insistito che venisse chiuso strettamente. Volevo vedere Dantès lottare… assistere a una sorta di risurrezione di Lazzaro, che esce in vita dal proprio sudario. È stato dopo aver fatto questa proposta, che ho lavorato sull’apnea con Stéphane. È stata una scoperta eccezionale: mi sono appassionato al punto da fare apnea, tra una ripresa e l’altra.

Com’è stata la tua collaborazione con gli altri attori?

Ho trovato favolosa, questa nuova generazione di attori, che non conoscevo. Vassili Julien e Anamaria sono stati incredibilmente ispirati e concentrati. La loro motivazione, la loro energia, mi ha stimolato costantemente. Per quanto riguarda i «cattivi», Conosco Bastien (Fernand de Morcerf) dai tempi del Cours Florent. Lui è allo stesso tempo molto creativo e molto imprevedibile, il mix ideale per un «buon» furfante. Patrick Mille (Danglars) è un cattivo perfetto. Nel suo ruolo di Villefort, Laurent è intelligente, deciso, calmo, ma aggiunge un plus d’emozione quando si rende conto di essere coinvolto in attività criminali. Per quanto riguarda Anaïs, sono cinematograficamente cotto da quando ho recitato con lei in Sauver ou périr. Ci sono poche attrici, che sanno emozionare così tanto. Nell’ultima scena tra Montecristo e Mercédès, non mi aspettavo di esserne catturato a tal punto. La semplicità, la naturalezza nel porsi, il suo modo di far sembrare la prosa di Dumas poesia, mi commuove. Potrei fare tutti i miei film con lei!

Come capisci che MonteCristo ha raggiunto la sua vendetta? È vero il perdono, l’amore per Mercédès, la nostalgia della purezza?

Non ho la risposta. Forse un po’ di tutto questo. Sono convinto, che ognuno può vedere quello che vuole. Lo spettatore può chiedersi: è sincero o è solo un gesto disperato? In definitiva, MonteCristo sì è veramente liberato di qualcosa? Forse è condannato a vagare. Io trovo il vagabondaggio bellissimo. Perché è tragico, e non c’è niente di più emozionante della tragedia. C’è una sorta di sollievo, forse? In ogni caso è una dimensione spettrale, che trovo terribile quanto bella».

Maximo

Maximo è lo storico autore di Tuttouomini.it Si occupa principalmente di news di gossip e celebrity

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